
Backstage: Daniele Coricciati e il suo bianco e nero per raccontare il cambiamento climatico per Fondazione Sylva
Appassionato del mestiere sin da giovanissimo, Daniele Coricciati è uno dei fotografati più stimati del territorio pugliese. Numerose le sue esperienze e lunga la lista dei suoi lavori in giro per il mondo: tappa decisiva del suo percorso umano e professionale è infatti il lungo viaggio in Azerbaijan alla fine del 2011 durante il quale realizza il reportage fotografico “One Way” (Sola Andata) commissionato dal Capitolo Italiano della “Royal Photographic Society” (la più antica istituzione fotografica al mondo) e dall’Ambasciata dell’Azerbaijan in Italia e che in seguito è stato presentato.
BACKSTAGE racchiude diverse serie tra cui gli scatti realizzati durante le giornate in cui Ed Burtynsky, fotografo canadese di origini ucraine, è stato in Salento per aggiungere “pagine” ai suoi progetti sui disastri che l’uomo e i cambiamenti climatici provocano a tutte le latitudini del pianeta Terra. Ancora, altri scatti che raccontano la lavorazione di uno lavoro realizzato dal regista Edoardo Winspeare e anche un estratto del reportage realizzato lo scorso anno durante due serate in Valle d’Itria, in cui la Fondazione ha presentato i suoi progetti a centinaia di invitati accorsi da ogni parte del mondo. La presenza di due testimonial d’eccezione, salentini doc, Nicoletta Manni étoile del Teatro alla Scala di Milano e Giuliano Sangiorgi, leader dei Negramaro, fu la ciliegina sulla torta della due giorni pugliese.
Abbiamo incontrato Daniele, per conoscere ancora di più il suo lavoro e svelare qualche curiosità.
Nella stagione culturale del Castello di Tutino i tuoi scatti assumono un ruolo da protagonista: BACKSTAGE sarà infatti fruibile agli ospiti e ai visitatori per tutto il mese di giugno. Qual è il fil rouge che lega tutti gli scatti tra loro?
Innanzitutto grazie a voi del Castello di Tutino per questa intervista e per aver deciso di ospitare le mie fotografie qui.
Il titolo che ho deciso di dare alla mostra dice già (quasi) tutto. Ho sempre avuto un’innata curiosità rispetto a tutto quello che ‘c’è dietro’, che sia un evento, un concerto, un film… Quello che il pubblico vede è il frutto di un lavoro, spesso silenzioso, di tanti professionisti e tante professionalità che ci mettono anima e passione, che lavorano nell’ombra ma che sono fondamentali per la buona riuscita del prodotto finale. Io mi sento uno di loro.
Negli anni ho raccolto decine di istantanee rubate nelle situazioni più disparate e a Tutino ho deciso di esporre una selezione degli ultimi lavori a cui ho avuto modo di prendere parte e che sono legati alla collaborazione con la Fondazione Sylva che ormai continua da due anni.
Tra la serie di scatti che saranno in mostra, ce n’è uno a cui tu sei maggiormente legato o uno che pensi che sia maggiormente significativo? Se si può scegliere, ovviamente.
Mi fai una domanda a cui è sempre difficile rispondere. Considero le mie fotografie un po’ come dei figli ed è come se chiedessi ad un genitore a quale figlio vuoi più bene :).
Ti rispondo però che ogni ad fotografia scelta ne corrispondono tantissime a cui ho rinunciato e che ogni immagine racconta in maniera diverse le emozioni che ho provato mentre scattavo.
Tra i tre lavori che sono in mostra sono comunque legato particolarmente al reportage che racconta il viaggio in Salento di Edward Burtynsky. È stato il progetto che ha inaugurato la collaborazione con la Fondazione ed è sicuramente uno di quelli a cui rimarrò più affezionato.
I tuoi lavori sono esprimono pienamente la tua creatività, potremmo ormai definirti “il fotografo del bianco e nero”. E perché hai scelto di rappresentare la tua arte senza colori? Quali sono stati i passaggi per arrivare a questa scelta che sembra ormai definitiva ed identitaria?
Mi fanno spesso questa domanda, e altrettanto spesso rispondo sempre allo stesso modo.
Uno dei miei fotografi di riferimento, Robert Frank, considerato a ragione uno dei più grandi al mondo, sosteneva che “il bianco e nero sono i colori della fotografia”. Negli anni ho fatto mie queste sue parole, o meglio queste parole sono diventate parte di me.
Vedo in bianco e nero un attimo prima di scattare. E non è così semplice da spiegare: in un mondo fatto di colori e in un contesto in cui siamo inondati da milioni di immagini a colori, un processo mentale, che per sottrazione, porta a ‘vederne’ solo due, con l’aggiunto però di decine di sfumature di grigio, è un esercizio quotidiano a cui difficilmente smetto di sottrarmi. Anche quando non ho con me la macchina fotografica.
Facciamo un salto nel passato, per scoprire qualcosa di più dell’artista, come è iniziato il tuo percorso e quali sono i momenti che hanno segnato la tua carriera?
Ho iniziato ad avvicinarmi alla fotografia quasi per caso: avevo sedici anni, uno zio fotografo morto prematuramente a ventisei anni quando io ne avevo solo tre e di cui sentivo parlare spessissimo, anche perché fisicamente ci assomigliamo molto.
A cavalli tra gli anni ’80 e ’90, ho raccolto tutta la sua attrezzatura rimasta a riposo per più di dieci anni dopo la sua morte e sono andato dal fotografo del mio paese, Zollino, che aveva appena aperto il suo studio.
Lui, Roberto Tondi, mi ha chiesto di affiancarlo durante il suo lavoro. Ho iniziato così, con i matrimoni e tutti i servizi ‘classici’ con cui un fotografo deve misurarsi. È stata una bella palestra, fondamentale per la mia formazione.
In seguito, sempre grazie anche alla mia curiosità, ho iniziato a sfogliare riviste e libri e ho avuto la fortuna di usare Internet a cavallo tra i due millenni. I primi Newsgroup, delle specie di social network ante litteram, i primi siti, soprattutto esteri, in cui si parlava di fotografia che mi hanno dato la possibilità di conoscere i lavori dei grandi fotografi.
Più tardi intorno ai trent’anni ho avuto la possibilità di frequentare tutta una serie di eventi legati alla fotografia e di conoscere alcuni tra i più grandi fotografi al mondo che ancora oggi considero fondamentali nella formazione del mio bagaglio culturale. Non voglio fare torti a nessuno ma un nome lo devo fare: Josef Koudelka. Il suo modo di raccontare il mondo attraverso le fotografie mi ha influenzato dal profondo. A lui devo tanto.
Una domanda provocatoria: perché un visitatore dovrebbe visitare la tua mostra? Qual è il valore aggiunto di questa esperienza a tuo parere?
Intanto perché il Castello di Tutino è un posto che merita di essere visitato e si mangia anche molto bene. Riferimenti culturali e culinari a parte, credo che quello che ho detto rispondendo alla vostra prima domanda sia uno dei motivi più importanti.
Le cose belle nascono da un altrettanto bellissimo lavoro di squadra. Vorrei che andare a vedere le mie foto fosse il pretesto per farsi un po’ di domande in più… che non guasta mai.
Per concludere, qualcosa di esclusivo: hai un progetto in cantiere che puoi anticipare in esclusiva per i lettori del Castello?
Sì. Vi ho parlato del viaggio di Burtynsky qui in Salento. Tra due settimane, sabato 17 giugno, a Lecce saranno esposte le dodici fotografie che Ed ha scelto per raccontare il dramma Xylella.
La mostra sarà allestita all’interno del Museo Castromediano. All’esterno invece, lungo il perimetro del museo, esiste un’installazione che ho immaginato e realizzato duranti i lunghi mesi del lockdown e che da due anni ospita una serie di mostre fatte di fotografie, illustrazioni, testi.
Si chiama NOW.
Sarà la prima volta per me che l’ho progettata che esporrò un mio lavoro lì.
E sapete cosa, neanche a farlo apposta, foto di backstage dalle giornate nella quali Ed Burtynsky e i suoi fidati collaboratori, Jim Panou e Mike Reid, sono stati qui in Salento.
Il reportage ha un titolo, “Send me a pin”… Non vi dico altro.
A cura di E.T.